“Navigando” su internet mi sono imbattuto in un articolo pubblicato su di un sito di architettura (www.archigrafica.org) dell’architetto Maurizio Zenga intitolato “L’armonia perduta” in cui racconta le sue sensazioni allo spettacolo di Moira Orfei a Marghera, alla periferia di Venezia.
“L’altra sera sono andato al circo. Il circo mi affascina e mi commuove. L’atmosfera che si respira nei dintorni del tendone, oltre agli odori forti che mescolano zucchero filato a sterco di elefante, è classicamente felliniana ed è forse per questo che il sogno cinematografico del grande Maestro rimbalza nella mia memoria ogni volta che ho di fronte uno spettacolo di magia o di equilibrismo oppure semplicemente un pagliaccio con il naso rosso che mi sorride”.
L’autore coglie alcune emozioni che sono state suscitate in lui dallo spettacolo per rielaborarle in senso simbolico e poi applicarle ad alcuni aspetti sociali e politici del nostro mondo contemporaneo. Non intendo riportare né commentare le applicazioni che il nostro architetto ed insegnate fa nel suo articolo (chi vuole può andare direttamente alla fonte), ma vorrei sottolineare le sue sensazioni ed emozioni che credo siano comuni a tanti “spettatori” del circo, e non solo quello della “Moira”
“La musica ha introdotto il primo numero con due ragazzini, i nipoti di Moira, le cui contorsioni eleganti e complicate su base musicale, mi hanno invitato immediatamente ad una prima riflessione:che scuola hanno frequentato due ragazzi che a dodici tredici anni sono in grado di esibirsi con tanta precisione, con tanto rigore e con una forza fisica e psicologica così potente ?
Che insegnanti hanno avuto questi fenomeni per essere così accurati nei loro movimenti e così appropriati negli sguardi, nei tempi musicali, nei gesti verso il pubblico, da non avere mai nemmeno l’ombra di un’incertezza?”
In circo si comincia molto presto, la vita è già segnata dalla nascita e la passione dei genitori per il loro mestiere è stata bevuta insieme al latte materno; il successo – che non è quello con il pubblico, ma il risultato del proprio impegno di fronte a se stessi – chiede fatica e sudore, lacrime e sangue, ma è impagabile e non paragonabile a qualsiasi altro risultato nella vita.
Dice il nostro autore: “A proposito di nipoti e di nepotismo… Il nepotismo al circo, inteso come passaggio dei ruoli tra padri e figli o…nipoti, è la regola! Ma una regola sana, garanzia di risultati e al circo non basta essere figli o nipoti del domatore per averne lo stesso coraggio, la stessa capacità, la stessa bravura nell’addestrare le tigri.
Bisogna essere capaci di fare anche meglio dei padri per conquistarsi il diritto di seguirne le orme la fama e l’applauso del pubblico, dimostrando di avere acquisito e rielaborato perfettamente fin dalla nascita il loro insegnamento”.
È ovvio che non poteva mancare una osservazione sui pagliacci: “Ogni volta mi fanno ridere con più gusto ed ogni volta su temi diversi che questi “signori” dello spettacolo affrontano come fossero degli psicologi, talmente esperti della natura umana e delle sue reazioni, da ottenere dal pubblico sempre ciò che si aspettano. E il pubblico risponde con le risate a ciò che invece dovrebbe spingerli, quasi sempre, ad un esame di coscienza”.
Nell’azione dei clown c’è “una saggezza e una semplicità”, “la leggerezza della poesia” con cui entrano in relazione con il loro pubblico sorridendo prima su se stessi e sui propri malcelati difetti per suscitare il sorriso degli spettatori; ma proprio qui sta il “trucco” quello di una sorta di transfert dello spettatore nel pagliaccio, la gente non è capace di trovare il lato comico della propria vita, il clown glielo mostra con semplicità.
Lo stupore del nostro autore emerge di nuovo di fronte al numero dei pappagalli. “Come si possa far fare ad un pappagallo cose che richiedono atteggiamenti e posizioni talmente espressivi, quasi “umane” è davvero un mistero. Eppure, un giovane addestratore ci riesce con disinvoltura, quasi come se conoscesse il linguaggio di questi volatili (a proposito, non credo agli animalisti che denunciano “torture” da parte degli addestratori, credo piuttosto ad una disciplina rigorosa nella comunicazione e alla conoscenza profonda che i circensi hanno dei loro compagni animali, con cui certamente parlano un linguaggio a noi sconosciuto)”.
Ed è proprio la difficoltà di comunicazione sempre più evidente che prende il nostro mondo tra generazioni e categorie diverse di persone il tema che il nostro architetto affronta. A me piace sottolineare l’intuizione assai corrispondente alla realtà, sul tipo di rapporto tra i circensi ed i “compagni animali”. Nell’addestramento non c’è una reale sottomissione dell’animale all’uomo, piuttosto il contrario, nel senso che è l’uomo che si adatta ai tempi ai ritmi ed al linguaggio non verbale dell’animale per comprenderlo, per abituarlo al suo linguaggio verbale. Allora riesce a far compiere gesti che sono naturali per l’animale ma in una routine che fanno spettacolo.
Rimanendo sul tema degli animali il nostro architetto dice di aver “ammirato a dismisura questo domatore di elefanti senza peso”.
“Come fa un elefante a camminare tra quattro corpi di ragazze distese a terra e a non sfiorarne neanche una con le zampe? Semplice, ponendo attenzione”.
In effetti l’attenzione non è dell’elefante ma del suo addestratore che sa dargli i comandi giusti, o meglio l’elefante deve stare attento ai segnali che, impercettibilmente al pubblico, riceve dall’addestratore.
Una considerazione interessante è sull’orchestra:
“La musica dal vivo è una di quelle cose che al circo non può mancare perché quando segue un esercizio, ne segue il tempo, il ritmo, la misura, le pause, il maestro guarda il clown e ne segue i movimenti, osserva il saltatore volante dal trapezio e aspetta il suo tuffo per suonare il piatto, insomma è tutt’uno con l’artista che si muove nell’arena e tiene insieme lo spettacolo rammentandone le sfasature e coprendone i buchi con qualche toppa.
In forma simbolica ciò che dovrebbe fare un vero educatore, colui cioè che aspiri ad essere il tutore, la guida del gruppo che riesce a tenere saldamente in mano con la propria bacchetta, che a volte segue e asseconda, a volte trascina o scuote malamente”.
“Quanta umiltà e quanta sapienza, quanta arte e quanta poesia c’è in questo mettersi completamente al servizio dello spettacolo, senza eccessi, senza assoli, senza velleità di apparire in prima fila o sotto i riflettori, ma nell’ombra del golfo mistico.
Dovremmo forse imparare che la vera democrazia nasce dal buio quasi totale nel quale suona l’orchestra del circo, dalla sconosciuta maestria di questi musicisti senza volto che ogni sera danno un suono ai gesti di chi si esibisce alla luce dei riflettori sotto la guida del “Maestro””.
L’ultima considerazione è sul trapezio e gli uomini volanti.
“Questa è la parte dello spettacolo che più si avvicina al cielo di questo piccolo mondo in miniatura, si svolge infatti molto in alto, quasi a toccare il tendone e dunque è quella che più mi richiama al senso spirituale e, se vogliamo, religioso dell’arte circense.
Non c’è che la fiducia totale e reciproca nella certezza che ci sia sempre l’abbraccio di un compagno a raccoglierti dopo un triplo salto mortale nel vuoto. Fiducia la cui alternativa è solo il vuoto, il fallimento o addirittura la morte, per i più spericolati.
Quale metafora più bella e profonda della solidarietà umana e del coraggio che ad essa dovrebbe sempre accompagnarsi?
C’è una simbologia più chiara e più semplice di questa? Che ci parli di amore, forza, coraggio, abilità, solidarietà e che ci avvicini così tanto alla nostra consapevolezza di essere nulla , se non c’è qualcuno che ci stringa forte tra le sue braccia quando rischiamo di precipitare?”.
A questa considerazione non aggiungo commenti, ma vorrei concludere con un’altra affermazione del nostro amico che da buon architetto applica alla struttura del circo, al suo tendone che io vorrei fosse intesa in senso più generalizzato: “Il circo è così com’è da centinaia di anni, eppure è sempre al passo coi tempi”. |